Aurélie, tra veli e dialetti
Mi chiamo Aurélie, ho circa sessant'anni e faccio parte dei patrizi di Centovalli. Nel corso della mia vita ho vissuto tanti episodi forti di razzismo e discriminazione, dentro il mio stesso paese, a causa della mia scelta di diventare musulmana quando ero più giovane.
Ricordo quando lavoravo in una ditta a Chiasso quando un giorno il mio capo, sapendo della mia fede, mi ha chiesto: "Ma non è che vuoi mettere il velo, vero?". Ho risposto con una semplice domanda: "Perché?". La sua risposta è stata gelida e diretta: "Perché tu entri da questa porta ed esci da quella". In quel momento ho capito tutto. Non ho reagito, non volevo darle la soddisfazione di vedermi ferita. Ma dentro di me ho realizzato quanta ignoranza ci fosse nella sua mentalità.
Anni dopo, nel 2016, ero volontaria nella biblioteca di una scuola elementare del Luganese. Avevo deciso di indossare il velo, una scelta personale e spirituale. Un giorno, la responsabile della biblioteca mi si è avvicinata e, con tono severo, mi ha chiesto: "Cosa stai facendo?". Io, confusa, le ho risposto: "Cosa?". Lei, senza mezzi termini: "Ah, non penserai mica di venire con il velo in biblioteca!". Sono rimasta basita. Le ho risposto: "Scusa, perché? Se entra una suora ha il velo, no? Che differenza c'è tra me e lei? Crediamo nello stesso Dio". La situazione è degenerata al punto che hanno convocato una riunione con tutte le bibliotecarie per decidere, con una votazione, se io potessi continuare a fare da volontaria o meno.
Spesso ricevo insulti in altre lingue. Lo trovo assurdo: che senso ha offendere qualcuno se quella persona non può capirti? Forse chi lo fa si sente più forte, convinto che l’altro non possa rispondere. Ma per me è solo un segno di vigliaccheria.
Un giorno ero alla cassa di un supermercato a Kufurama. Il cassiere stava cambiando il rullino dello scontrino, quindi c’era un po’ di attesa. Avevo già appoggiato la mia spesa sul nastro quando una donna dietro di me ha detto, in dialetto ticinese: "Te t’avist che sta qi?" (Hai visto questa qui?). Mi sono girata e l'ho guardata dritto negli occhi. "Shura a ga problemi?". La sua mascella è caduta, non se l'aspettava. Non ha detto più nulla.
Non tanto tempo fa, stavo attraversando sulle strisce pedonali vicino al Denner quando un uomo anziano mi ha insultata pesantemente. Senza perdere la calma, gli ho risposto: "Dile a ta mà qel che mi amaedì" (Dillo a tua madre quello che mi hai detto). È rimasto di sasso.
L'episodio più recente è probabilmente il più ridicolo: stavo parcheggiando alla Lanchetta quando ho visto un uomo svizzero tedesco parcheggiare il suo grande gippone nel posto riservato ai disabili. Mi sono avvicinata e gli ho detto: "Certo che come invalido non vedo il distintivo sulla macchina". La sua reazione è stata rabbiosa: ha iniziato a insultarmi pesantemente in svizzero tedesco. Quello che non sapeva è che io parlo la sua lingua. Gli ho risposto nella sua stessa lingua. Scioccato, ha perso le staffe e mi ha urlato: "Torna al tuo paese!". A quel punto, con calma, gli ho risposto: "Questo è il mio paese. Sei tu che dovresti tornare al tuo". Ho fotografato la targa e chiamato la polizia.
Non cerco la compassione di nessuno, ma voglio che queste storie siano ascoltate. Perché il problema non è mio, è di una società che fatica ancora ad accettare la diversità. E io non ho alcuna intenzione di abbassare la testa.