Cyrine e la mamma dell'amica
La mia prima esperienza di razzismo me la ricordo ancora bene: avevo 11 anni e camminavo nei corridoi della mia scuola media come qualsiasi altra studentessa, aspettando il cambio dell'ora, pensando alle lezioni, ai compiti, alle amicizie. Ma ogni volta che incrociavo quel ragazzo più grande di me, sentivo la sua voce farsi spazio tra le altre:
"BOMBA! BOMBA!"
Non lo conoscevo, non gli avevo mai fatto nulla. Eppure, per lui, io non ero f. Io ero solo un simbolo. Il mio velo, che portavo con orgoglio, bastava a renderlo convinto che fossi qualcosa di pericoloso, qualcosa da deridere, da umiliare.
Non ho mai risposto. Dentro di me pensavo solo che fosse stupido, che non sapesse quello che diceva. Ma il dolore, quello non si cancellava così facilmente. Quello rimaneva.
Sapevo che la televisione parlava spesso di "musulmani terroristi", "musulmani radicali". Ogni attentato diventava una condanna per tutti noi. Eppure, io ero solo una ragazzina di 11 anni, cresciuta in Ticino, con radici tunisine, che non aveva nulla a che fare con tutto questo.
Ogni volta che quel ragazzo gridava quelle frasi nel corridoio, io sentivo il giudizio di un mondo intero che mi vedeva prima come "musulmana" e solo dopo come "bambina".
Col tempo, smise. Forse si era annoiato. Forse aveva trovato qualcun altro su cui scaricare la sua ignoranza. Ma il senso di ingiustizia non se n'è mai andato del tutto.
Due anni dopo, quando avevo 13 anni, ho perso qualcosa di ancora più prezioso: la mia migliore amica.
Stavamo sempre insieme, a scuola e fuori. Ridevamo, ci raccontavamo tutto. Fino a quel giorno in cui mi disse, con un filo di voce, che i suoi genitori erano preoccupati. "In televisione dicono cose sui musulmani..." Così le avevano detto. Così avevano deciso: non potevamo più essere amiche.
Ma lei mi voleva ancora bene. Un giorno organizzammo di vederci comunque. Arrivò all'appuntamento, ma non era sola. Sua madre rimase con noi tutto il tempo. Non mi disse nulla, non fece nulla di apertamente ostile. Ma era lì, a controllare, come se io fossi un pericolo. Come se io, Cyrine, la sua compagna di scuola, la sua migliore amica, potessi farle del male.
Non dissi niente, ma dentro di me qualcosa si spezzò. Come si può pensare che una ragazzina di 13 anni possa essere una terrorista? Come si può lasciarsi avvelenare così tanto dalla paura da dimenticare che, prima di tutto, siamo persone?
Non mi sono mai sentita così sola come in quel giorno.
Ora ho 22 anni e vivo ancora a Lugano. Ho trovato persone che mi accettano per quella che sono. Ma il passato non si cancella. E per questo racconto la mia storia: per ricordare che le parole hanno un peso, che la paura può rubare legami, che nessun bambino dovrebbe mai sentirsi un estraneo nel proprio paese, nella propria scuola, nella propria casa.