Sara, alla fermata del bus
Mi chiamo Sara, ho 26 anni e vivo a Lugano, anche se i miei genitori sono patrizi di Lostallo. Sono svizzera, nata e cresciuta qui, e da qualche tempo mi sono convertita all’Islam. Ho deciso di indossare il velo da pochi mesi, e da allora ho notato molti sguardi su di me. Posso capirlo: anche io, prima di avvicinarmi a questa religione, avevo dei pregiudizi. Ma poi ho iniziato a leggere, a informarmi, e l'ho invece vista come una religione di pace, rispetto e fratellanza. Nulla di ciò che immaginavo, nulla di ciò che spesso si sente dire.
Fino a pochi giorni fa, non avevo mai vissuto un episodio di discriminazione diretta. Non pensavo che potesse accadere, non qui, in un paese che credevo aperto a tutte le scelte personali. Ma quel giorno, alla fermata dell’autobus, qualcosa è cambiato.
Ero lì, come ogni giorno, aspettando il bus per andare a lavoro. Un uomo si è avvicinato e ha iniziato a parlare a voce alta. Diceva cose come: “Non vi perdonerò mai per quello che avete fatto”, “Siete puzzolenti, vergognatevi, che Dio vi perdoni”. All’inizio non pensavo si stesse riferendo a me. Ma quando mi sono allontanata, lui ha continuato: “So che mi senti anche se ti allontani”. E poi ancora insulti, offese, parole cariche di odio.
Attorno a noi c’erano altre persone: uomini, donne, giovani. Nessuno ha detto nulla. Nessuno ha preso una posizione. Io mi sono sentita sola, vulnerabile, ferita. Ho iniziato a piangere mentre cercavo di allontanarmi, come se potessi scappare non solo da lui, ma da quel peso ingiusto che mi era stato messo sulle spalle. Mi stava addossando colpe che non mi appartenevano, mi insultava per qualcosa che non mi rappresenta. Ma per lui non contava chi fossi davvero. Contava solo il velo che portavo.
Forse, ai suoi occhi, quel pezzo di stoffa mi rendeva colpevole. Forse mi aveva associata al terrorismo, a crimini commessi da persone folli e malvage. Ma io non sono una terrorista. La mia religione condanna il terrorismo. Io lo condanno.
Indossare il velo è più difficile di quanto pensassi. Un giorno sei vista come una terrorista, il giorno dopo come un’oppressa. Ma ora capisco: l’oppressione è una percezione che viene imposta dagli altri, da chi non conosce, da chi non si ferma a chiedere, a capire. Io non mi sento oppressa. Nessuno mi obbliga a portarlo. È una mia scelta, ed è una scelta di cui sono fiera.
Eppure, questo episodio mi ha fatto riflettere. I media chiamano il terrorismo “terrorismo islamico”, diffondendo l'errata convinzione che l'Islam possa giustificare simili atrocità, quando questa religione lo rifiuta con forza.
Così si diffondono paure, sospetti, etichette che poi pesano sulle spalle di chi, come me, ha scelto di manifestare la propria fede. E chi ne paga il prezzo più alto? Le donne che, con il loro velo, sono un bersaglio visibile per chi si lascia guidare dalla paura.
Non ce l’ho con quell’uomo. Non ce l’ho con le persone. So che molti si fidano di ciò che sentono, così come facevo io prima di informarmi davvero. Ma non tutto ciò che sentiamo è vero. Vorrei solo che tutti avessero la possibilità di aprire un libro prima di giudicare, perché forse il mondo sarebbe un posto più colorato, più aperto, più giusto.