Vera, con il velo niente caffè
Ero con tre amiche, tutte donne come me, ma diverse per origini, religione, abitudini. Stavamo andando a Ponte Tresa per bere un caffè insieme, una piccola pausa dalla quotidianità. Io guidavo. Era un giorno qualunque, senza nuvole, eppure… è diventato uno di quelli che non si dimenticano più.
Alla dogana di Lugano-Ponte Tresa, ci siamo fermate come sempre. Una guardia si è avvicinata. Non ci ha chiesto i documenti, non ha parlato alle mie amiche. Si è rivolto solo a me. Mi ha guardata negli occhi e mi ha detto, freddo, deciso: “Tu di qui non puoi passare, perché indossi quel velo.”
Sono rimasta senza parole. Non riuscivo a rispondere, non perché non avessi qualcosa da dire, ma perché la vergogna e lo shock mi avevano paralizzata. Non c’era spazio per discutere: le macchine dietro suonavano, la fila doveva scorrere. Ho girato la macchina e siamo tornate indietro.
Non ho solo sentito il peso di un’ingiustizia. Ho sentito anche una colpa che non mi apparteneva. Alle mie amiche ho detto, quasi scusandomi: “Per colpa mia non possiamo andare a bere il caffè.” Ma che colpa avevo, davvero? Quella di essere me stessa? Di indossare un velo che per me è identità, dignità, scelta?
Oggi penso che forse quella reazione fosse figlia della paura, dell’ignoranza, dell’eco di eventi come l’11 settembre, che hanno creato barriere invisibili tra le persone. Ma nessun trauma collettivo può giustificare un atto di discriminazione personale. Nessuna paura può cancellare il rispetto.
Mi chiamo Vera. Vivo in Ticino da decenni e sono originaria del Kosovo. Vent’anni dopo, racconto questa storia perché non voglio che resti solo mia. Perché chi ascolta possa riconoscere che certe ferite non si vedono, ma lasciano cicatrici profonde. Perché il confine più difficile da superare, a volte, non è quello tra due paesi… ma quello tra il pregiudizio e la comprensione.